L’UNITA’ E I PRESIDENTI: 1962 – ANTONIO SEGNI – settima votazione

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L’UNITA’ E I PRESIDENTI: 1962 – ANTONIO SEGNI – settima votazione

’elezione dei Presidenti della Repubblica Italiana

L’UNITÀ

ORGANO DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO Quotidiano / sped. abb. postale / Lire 40                           * * Anno XXXIX / N. 124 / domenica 6 maggio 1962

MARIO ALICATA Direttore
LUIGI PINTOR Condirettore
TADDEO CONCA Direttore responsabile

 

 

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Malgrado il riconfermato appoggio dei fascisti

Nuova bruciante sconfitta di segni che perde voti al 7° scrutinio
Febbrile notte di consultazioni fra i maggiorenti dc – Forte resistenza dorotea al ritiro della candidatura – oggi alle ore 18 ottava votazione

Con un’altra sconfitta del gruppo oltranzista «doroteo», che per la settima volta ha portato Segni all’insuccesso, si è conclusa l’unica votazione per il presidente della Repubblica, tenutasi ieri pomeriggio. La prossima, che non è detto sia quella decisiva, avrà luogo oggi, alle ore 18.

Dopo lo scrutinio, fino a notte avanzata, visto l’ennesimo fallimento della linea «dorotea», i dirigenti dc hanno lottato lungamente fra loro alla ricerca di una soluzione.
Tuttavia, fino a notte inoltrata, la pressante richiesta delle «sinistre» dc («base» e fanfaniani) per ottenere la convocazione della Direzione e dei Gruppi al fine di cambiare candidatura, non era riuscita a prevalere. In queste condizioni, se anche oggi la situazione non sarà mutata, la DC voterà, anche in ottavo scrutinio, il nome di Segni.

Ed ecco i risultati della settima rotazione.
Segni 389
Saragat 332
Gronchi 29
Merzagora 12
Schede bianche 58

Il risultato dello scrutinio ha sollevato notevole interesse. Per la prima volta, infatti, malgrado i voti riconfermati delle destre il nome del candidato ufficiale della DC perdeva voti: dieci, per l’esattezza, rispetto allo scrutinio della sera precedente (399). Il fatto che Segni abbia perso voti è significativo. Esso sta a dimostrare un inizio di cedimento nella DC e l’apertura di nuove possibilità. Poco prima del voto, infatti, pur riconfermando ufficialmente il nome di Segni, e mentre i «dorotei» continuavano a premere duramente sui «dissidenti» perché votassero il candidato ufficiale, si erano udite dichiarazioni democristiane ufficiali, ma che tuttavia lasciavano capire come nelle disperate condizioni in cui si era cacciata. la segreteria della DC cercasse una via d’uscita. Si è attribuita a Moro, confermala da altri dirigenti dc la frase: «Non possiamo abbandonare Segni; finché continua ad aumentare voti. Se nel settimo scrutinio egli perderà una decina di voti, allora vedremo». Il fatto che, puntualmente, Segni abbia perduto proprio una decina di voti, è stato quindi generalmente interpretato come l’inizio di una manovra di sganciamento, verso una onorevole ritirata.

Su questo tema si è discusso per tutta la notte. L’opposizione «dorotea» è stata durissima e sono corse voci drammatiche sulla riunione, protrattasi fino a tarda sera, fra Moro, Gava, Zaccagni, Scaglia e Salizzoni (ai quali si aggiunto, negli ultimissimi minuti, anche Forlani). Moro aveva incontrato pochi minimi, prima della riunione Colombo e Rumor, i quali avevano insistito sulla loro posizione di difesa della candidatura Segni. Mora ha riferito la posizione «dorotea» e si dice che durante la riunione è stata avanzata anche l’ipotesi, non solo delle dimissioni del governo, ma delle dimissioni di Moro da segretario del partito.
Dopo questa riunione tenutasi a Montecitorio Moro si è recato a piazza del Gesù, ed ha subito incontrato Tanassi. Il vicesegretario socialdemocratico ha proposto il ritiro contemporaneo delle candidature di Segni e di Saragat e la loro sostituzione con un nome concordato che risultasse di gradimento dei partiti di centrosinistra (Merzagora). Moro ha riferito la sostanza dei colloqui avuti in precedenza con i suoi colleghi di partito, sostenendo di trovarsi nelle condizioni di dover ancora appoggiare la candidatura Segni.
Malgrado la sicurezza ostentata dai «dorotei», tuttavia si fa strada sempre più chiaramente nella DC la persuasione che ove la DC non scegliesse un altro candidato designato tre scrutini, dopo i quali la Direzione avrebbe dovuto scegliere un candidato diverso. Di notevole interesse è certamente il fatto che una richiesta di convocazione della Direzione è stata avanzata anche da Pinna, membro «fanfaniano» della Direzione.

Tra le dichiarazioni rilasciate dai leaders politici dopo il settimo scrutinio Ciao, una di Nenni ha riconfermato «la necessità di ricercare una soluzione capace di assicurare l’elezione del Presidente sulla base di una larga maggioranza». Nenni ha riproposto di «riprendere in esame la situazione senza preconcetti». Orlandi (PSDI) ha espresso la soddisfazione del suo gruppo per il voto. «Se la DC vuol trattare questo è il momento» ha detto, aggiungendo: «La DC ritiri il suo candidato e noi da parte nostra non insisteremo su Saragat. In questi termini si può trovare un accordo».
Sui nomi degli eventuali nuovi candidati entrati in circolazione ieri (oltre a Gronchi e Piccioni, ricorreva ancora il nome di Fanfani, insieme a quelli di Merzagora e di Leone) i «dorotei» (che hanno seduto in permanenza tutta la serata) hanno avanzato preclusioni nette in particolare su Fanfani e su Gronchi, che essi accusano apertamente di aver cercato di «minare» l’autorità del loro gruppo che, hanno ripetutamente affermato diversi dorotei, «è quello che comanda».

Prima del settimo voto il ritmo degli incontri ieri, è stato particolarmente fitto. Il giorno prima si era avuto un incontro quadripartito (DC, PRI. PSDI, PSI), alla Camilluccia. Definito rigido . l’atteggiamento di Moro, tale inflessibilità è stata confermata subito, nella mattinata. Dopo una riunione del «direttivo» dc l’on. Zaccagnini respingeva «l’analisi grossolana» dei voti della sera prima, che avevano veduto Segni avanzare per merito dei voti fascisti. Zaccagnini affermava che non si può dire che i voti confluiti su Gronchi, Piccioni e Merzagora siano tutti provenienti dalla DC, come non si può dire che su Segni siano confluiti tutti i voti della destra. Da notare che, in precedenza sia Michelini che Roberti avevano annunciato di aver votato, e di continuare a votare per Segni. Zaccagnini, dopo la riunione, riconfermava che il gruppo dc avrebbe ancora votato per Segni.

Di fronte a questo atteggiamento, sempre più rigidamente legato al nome ormai pregiudicato di Segni vi è stato un susseguirsi di prese di posizione, da parte di socialisti, repubblicani e socialdemocratici. Nenni ha avuto un colloquio con Saragat e Reale al termine del quale sia Reale che Nenni dichiaravano che avrebbero continuato a votare per Saragat, vista l’ostinazione dc a continuare a proporre un candidato ormai «ipotecato» dai fascisti. Nenni poi si incontrava a Palazzo Chigi, con Fanfani. AI termine di questo colloquio, Fanfani — che aveva preso contatto anche con altri gruppi parlamentari nel corso della mattinata — riceveva Moro. Si è mantenuto il massimo riserbo sul contenuto degli incontri. Ma da quel momento è cominciata a circolare la voce della dichiarazione, attribuita a Moro, secondo cui se Segni in settima votazione avesse perso voti, si sarebbe dovuta riesaminare la questione della sua candidatura. La voce è stata subito duramente smentita dai «dorotei» più accaniti (Colombo). Emissari della cosiddetta «polizia dorotea» sono stati lanciati alle calcagna di tutti i votanti democristiani per fare azione di persuasione e di «blocco» di ogni cedimento. «Non dovete ascoltare voci disfattiste. Comandiamo noi, non gli altri “capicorrente”. Il partito lo dirigiamo noi».

Dopo il colloquio con Reale e Saragat, e dopo il colloquio con Fanfani, Nenni ha riferito alla Direzione del PSI. riunitasi a Montecitorio, insieme ai gruppi. «Saragat deve essere sostenuto finché la DC non presenterà un’altra candidatura accettabile», egli, ha dichiarato Vecchietti, leader della «sinistra» socialista, e Valori hanno reso analoghe dichiarazioni.
Frattanto, in previsione del voto pomeridiano, i dorotei avvicinavano ancora una volta tutti i possibili votanti per Segni. Dopo aver abbordato a titolo personale alcuni liberali tentennanti, Salizzoni ha avuto una riunione con i parlamentari altoatesini, i quali lo hanno assicurato che essi avrebbero continuato a votare per Segni.

Prima del settimo voto, e successivamente, altri incontri e colloqui si sono avuti a Montecitorio. La Malfa ha incontrato Amendola, il quale si è anche incontrato con Pertini. Togliatti, che nella mattinata aveva avuto alcuni altri incontri politici, ha avuto un breve colloquio con Saragat; Pajetta ha visto De Martino e La Malfa. Da tutti questi colloqui è emerso che il parere comune di tutti gruppi che hanno appoggiato Saragat è che il leader del PSDI dovrà ritirare la sua candidatura solo nel caso che la DC ritirerà la candidatura di Segni. Reale, Orlandi, De Pascalis, Vecchietti, Pajetta, Ingrao, si sono tutti espressi in questo senso.
Fra i commenti, da rilevare un editoriale della Giustizia, dell’on. Orlandi, nel quale, dopo un augurio che si possa trovare un punto di incontro per la soluzione della crisi, si afferma che i 332 voti che si sono raccolti intorno al compagno Saragat hanno assunto significati e valori su cui il Parlamento e il Paese sono stati chiamati a meditare. Di fronte a una maggioranza relativa che ignorava le possibilità di colloquio, tutte le minoranze si sono trovate concordi nell’articolare uno schieramento comune di difesa.

Di fronte alla possibilità che fascisti e monarchici condizionassero l’elezione del Capo dello Stato le forze democratiche di sinistra hanno alzato le insegne della lotta antifascista, da cui la Repubblica è nata, ed hanno trovato su questo terreno il naturale consenso dei comunisti.

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L’alternativa

IL FATTO nuovo, che dovrebbe segnare una svolta nella battaglia per il Quirinale, è che, al settimo scrutinio, Segni non solo non è passato, ma, per la prima volta dall’inizio delle votazioni, ha visto non aumentare, ma diminuire i suoi voti. Poiché la destra monarchica e fascista ha continuato a votare il suo nome in modo massiccio, ciò significa che proprio in conseguenza di quest’apporto di voti altri «grandi elettori» democristiani cominciano a rifiutarsi di avallare più oltre l’avventura in cui egli si è cacciato. ln senso opposto, il settimo scrutinio ha visto invece un aumento dei voti di Saragat. E ciò significa che le forze di sinistra che si sono raccolte intorno alla sua candidatura in opposizione alla candidatura di destra, anzi clerico-fascista oramai, dell’on. Segni, mantengono la loro unità, la loro compattezza e la consolidano. Così come hanno mostrato di non cedere alle pressioni e ai ricatti, i gruppi di sinistra democristiani che da cinque giorni ormai si rifiutano di votare Segni e votano o Gronchi o Merzagora o scheda bianca o disperdono i loro voti.

QUEST’ ANALISI della situazione basterebbe da sola a far risaltare in modo assai eloquente la gravissima responsabilità che gli organismi dirigenti della Democrazia cristiana si sono assunti, sostenendo fino a questo momento, in modo esasperato, la candidatura Segni. Né dal punto di vista politico ha grande importanza se ciò sia avvenuto per debolezza e impotenza di fronte ai «dorotei » o per accettazione consapevole dei progetti di costoro, progetti che sono basati. oltre che sulla volontà di soddisfare un’avida sete di potere, sul proposito di svuotare di ogni eventuale contenuto positivo la presunta « svolta» di centro-sinistra. Ciò che va sottolineato è che gli organismi dirigenti democratici cristiani si battono da cinque giorni in modo cieco e settario contro la maggioranza del Parlamento, contro tutte le forze democratiche del Parlamento, contro i propri alleati di governo, per una candidatura di parte, chiaramente minoritaria anche all’interno del partito che l’esprime, capace di allargare i suoi consensi soltanto nell’estrema destra monarchica e fascista!

IL PAESE, a nostro avviso, segue con passione la battaglia in corso per il Quirinale, ne comprende il profondo significato politico, è solidale, nella sua grande maggioranza, con la battaglia che le forze di sinistra, laiche e cattoliche, stanno conducendo in difesa delle istituzioni, per non renderle facile preda della prepotenza d’un gruppo di potere della Democrazia cristiana: ha salutato con soddisfazione la convergenza e unità che, in quest’occasione, ha visto realizzarsi nella sinistra operaia e democratica. Ciò che il paese comincerà però senza dubbio a chiedersi è fino a che punto, e con quale prospettiva, i «dorotei» e gli organismi dirigenti della Democrazia cristiana intendano tirare la corda.

ABBIAMO scritto ieri che l’atteggiamento di costoro aveva varcato il limite. Oggi possiamo aggiungere che ha toccato il fondo. Noi ci auguriamo davvero che la notte porti loro consiglio e ch’essi si decidano finalmente ad una trattativa seria con tutti i gruppi democratici che hanno nei giorni scorsi dimostrato di avere la forza e il diritto di trattare per concordare l’elezione d’un Presidente della Repubblica capace di raccogliere intorno a sé un largo consenso democratico e nel Parlamento e nel Paese. Questa trattativa noi indichiamo ormai da più giorni come una via di uscita onorevole per tutti. A questa trattativa gli organismi dirigenti della Democrazia cristiana non possono più ragionevolmente rifiutarsi. L’alternativa è quella di una iniziativa unitaria, ancora più energica e più decisa, di tutte le forze, laiche e cattoliche, di sinistra esistenti nel Parlamento e che del Parlamento costituiscono, a conti fatti, la maggioranza.

Mario Alicata

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Capo dello Stato

La vicenda non ancora conclusa dell’elezione presidenziale ha inizio — a parte i sondaggi preliminari — lunedì scorso, 30 aprile, quando i «grandi elettori» della DC designano il loro candidato «ufficiale« nella persona del ministro degli Esteri, il doroteo on. Antonio Segni. Non si sa esattamente (le schede, appena scrutinate, vengono date alle fiamme) per quanti voti egli superi il «quorum» stabilito dalla segreteria del partito (179).

Bene o male, tuttavia, Segni viene designato: sarà lui, dunque, l’avversario di Saragat, sostenuto ufficialmente dal P.S.D.I. e dal P.R.I.

Mercoledì 2 maggio, a Montecitorio, 854 deputati, senatori e i delegati delle Regioni a Statuto speciale (i fascisti del M.S.I. invano hanno tentato di far escludere questi ultimi), si accingono ad eleggere il nuovo Capo dello Stato.

Com’è nelle previsioni, nessun candidato raggiunge il quorum prescritto: Segni ottiene 333 voti la prima volta, 340 la seconda, 341 la terza. Si capisce subito che, nelle file della D.C., un gruppo consistente di parlamentari non è disposto a sottostare alla disciplina imposta dal segretario dei Partito. on. Moro.

I comunisti votano al primo e secondo scrutinio per Terracini, che ottiene 200 e 190 voti; i socialisti per Pertini al primo scrutinio.

Saragat, ai primo scrutinio, ottiene 42 voti (quelli del parlamentari del .P.S.DI. e del P.R.I.), sale però a 92 al secondo (votato anche dai parlamentari autonomisti del P.S.I.) e 299 al terzo, quando anche i comunisti concentrano i suffragi su di lui.

Una sola votazione ha luogo giovedì 3 maggio. Il duello è fra Segni e Saragat, che ottengono rispettivamente 354 e 321 voti: Saragat ha, oltre a quelli di socialdemocratici e repubblicani, anche tutti i voti del P.S.I. e del P.C.I.; Segni invece non riesce a raccogliere intorno al suo nome i voti di tutto il suo Partito.

Il quorum di 428 voti non è raggiunto e il presidente della Camera riconvoca la seduta per il giorno successivo, venerdì 4 maggio. Hanno luogo due votazioni: Segni progredisce: ottiene 396 e 399 voti, dato che su di lui, il doroteo di «sicura fede atlantica ed anticomunista», – come lo definisce il fascista Roberti – concentrano i suffragi, dopo i liberali (che lo avevano sostenuto fin dall’inizio) anche missini e monarchici. Saragat ottiene invece 321 e 314 voti.

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Montecitorio

Rime estemporanee sul… cavallo perdente
Segni si dilegua e non saluta più Saragat

Sempre nuovi sistemi per calcolare i voti ricevuti da ogni candidato, vengono escogitati, tra una seduta e l’altra dai parlamentari e dai giornalisti. Ognuno ormai ha un suo metodo che gli consente di seguire lo scrutinio con rapidità elettronica, e di valutare, già dopo una diecina ai minuti gli umori dell’assemblea.

Uno dei primi elementi di giudizio è dato dalla frequenza delle schede bianche. Non per caso, ieri sera, appena dall’urna è uscita la prima scheda bianca, il democristiano Tartufoli se n’è uscito con un gesto di rabbia, che ha sollevato le ironie dai banchi della sinistra. Le schede bianche infatti in questo scrutinio sono ancora aumentate, mentre Saragat ha raggiunto il massimo dei voti e Segni ne ha perduti dieci.

Il successo della apposizione, che continuava a votare compatta per Saragat, aumentando i suoi voti, il fallimento di Moro che non era riuscito a impedire né una diminuzione dei voti per il suo candidato, né una ulteriore affermazione dei «dissidenti» è stato salutato da un lungo applauso da parte dei settori della sinistra.

«Dopo ben sette giri — con la febbre addosso — ha il la buon Segni — il fiato grosso. — Rientrar lo faccia —— la DC allo stallo — e in giro mandi — altro cavallo». Così un poeta estemporaneo (se ne contano anche nel Parlamento) commentava la sconfitta di Segni, più grave di quanto appaia dalle cifre. Si era detto infatti nella mattinata che, se Segni avesse perso dei voti, Moro avrebbe acceduto alle richieste di «cambiar cavallo», puntando quindi su un nome nuovo. Lo scrutinio di ieri sera doveva quindi essere definitivo per la candidatura del ministro degli Esteri. Poco prima dell’inizio della seduta, egli passeggiava, ostentando grande tranquillità, nel corridoio laterale di Montecitorio, detto «dei ministri», in compagnia dell’on. Turnaturi e dell’on. Russo.

Forse si tratta solo di una coincidenza, sta di fatto però che l’on. Segni ha disdetto la scorsa settimana la casa dove ha abitato in tutti questi anni, in via Sallustiana. È stato facile quindi ai maligni supporre che egli non ne abbia ancora nemmeno cercata un’altra, convinto, evidentemente, di insediarsi tra breve al Quirinale.

Dopo il risultato dello scrutinio invece egli si è reso irreperibile, mentre l’on.le Saragat (chi ricorda ormai più la affettuosa stretta di mano tra i due candidati che ebbe luogo sotto l’occhio delle telecamere il primo giorno dello scrutinio?), attorniato da deputati di ogni corrente esprimeva vivacemente la sua soddisfazione ed ironizzava sul fatto che la RAI trasmettendo l’applauso con il quale l’opposizione aveva accolto la sconfitta di Segni, aveva commentato: «i deputati applaudono perché la seduta è finita».

«Per fortuna — concludeva il leader socialdemocratico — tutta l’Italia ha capito il senso di quella manifestazione»,

Oggi, domenica, avrà luogo l’ottava votazione. A questo proposito, qualcuno ha ricordato l’obbligo di «santificare le feste» al quale dei buoni cristiani dovrebbero comunque restar fedeli.

Qualcuno ricordava però che Cristo, ad un apostolo che gli sottoponeva un analogo quesito, rispose che una eccezione poteva farsi «per chi dovesse cavar fuori il somaro dal pozzo». L’on. Moro ha evidentemente rispettata la norma evangelica, e si accinge, domani, a tirar fuori dal pozzo ormai profondo. non diciamo un asino, ma almeno un cavallo che possa essere vincente.

Miriam Mafai