Le ambiguità di Giorgia Meloni. Perché non ha condannato la matrice.

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Le ambiguità di Giorgia Meloni. Perché non ha condannato la matrice.

Pubblicato su Repubblica

di Miguel Gotor

Ormai lo abbiamo capito: «Sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana». Ora ce lo ha scandito anche in spagnolo, la vena gonfia sul collo, e un domani, possiamo scommetterci, lo farà anche in ungherese. In questi anni, però, abbiamo anche compreso che Giorgia Meloni è una politica già esperta, preparata e abile, capace di scalare con feroce determinazione un partito di «maschi bianchi» (come si dice oggi), ma anche un po’ tanto «neri» (come si sarebbe detto ieri). E si candida a governare l’Italia.

Proprio per questa ragione le sue reazioni all’assalto squadrista alla sede della Cgil da parte di un gruppo di neofascisti di Forza Nuova meritano di non passare inosservate perché hanno superato quell’invisibile confine che separa le legittime aspirazioni dal velleitarismo.

Ora, cosa avrebbe dovuto fare Giorgia Meloni lo sanno anche le pietre: dopo avere visto gli uffici devastati della Cgil, avrebbe dovuto recarsi in Corso d’Italia, abbracciare Maurizio Landini a favore di telecamera ed esprimere la solidarietà sua e di Fratelli d’Italia; un partito, lo vogliamo ripetere, che si candida, con qualche chance di successo, a guidare l’Italia. Inoltre avrebbe dovuto condannare la chiara matrice neofascista di quell’assalto, dove si vede una vecchia conoscenza dell’estrema destra come Roberto Fiore, calmo e serafico, fermo su un ideale uscio, una sorta di zona di rispetto, che separava gli squadristi dallo spazio occupato dai manifestanti No Vax e No Pass.

E invece cosa ha fatto Giorgia Meloni? Esattamente l’opposto. Non solo ha scelto di negare l’evidenza, dichiarando di non conoscere la matrice di quell’assalto, ma ha pensato bene di correre in Spagna a una manifestazione di un partito nazionalista, intriso di nostalgie franchiste e falangiste, come Vox.

Queste decisioni e atti mancati suscitano alcuni interrogativi. Lo ha fatto perché teme di perdere i voti di quell’area di estrema destra? Non tanto il numero, che alla prova elettorale si rivela sempre esiguo, ma il loro valore simbolico, presso i più vecchi e i più giovani, che consente di mantenere una connessione sentimentale con un mondo fascista e neofascista che, malgrado tutto, rimane un punto di riferimento. Se così fosse avrebbe compiuto un grave errore perché, recandosi presso la Cgil e dicendo la verità su quell’azione, avrebbe ricevuto gli applausi della maggioranza dell’opinione pubblica italiana e, per quanti voti avrebbe perduto, altrettanti, e forse di più, ne avrebbe guadagnati.

Lo ha fatto perché culturalmente non è in grado di farlo? In effetti, in Italia, per precise ragioni storiche relative alla mancata epurazione dopo la fine del regime, all’uso politico dell’anti-comunismo dal 1947 in poi e al modo con cui si è usciti dalla crisi degli anni Settanta, la mancata defascistizzazione è stata sempre un problema aperto e ambiguo: una maschera trasformistica che cambia di continuo pelle e volto, ma nasconde una radice profonda e un riflesso di mentalità di un pezzo non residuale della borghesia e degli strati popolari del Paese.

Del resto, il suo partito nasce all’insegna di una rifondazione identitaria e sceglie di mantenere nel simbolo la Fiamma tricolore del Movimento sociale, quella che ardeva sulla tomba di Benito Mussolini. Fratelli d’Italia germina dopo il parricidio berlusconiano di Gianfranco Fini che coraggiosamente, lui delfino di Giorgio Almírante, aveva avviato un percorso che lo aveva condotto nel 2008 a dichiarare di riconoscersi nei valori costituzionali dell’antifascismo e a provare a costruire in Italia una destra liberale, conservatrice e sociale che manca come il pane alla nostra patria.

Lo ha fatto perché non può farlo in quanto è ricattata da quel mondo, la famiglia d’origine, da cui non riesce a prendere le distanze? Il tema è delicato e persino scivoloso, ma è molto serio e meritevole di essere approfondito perché chi conosce un po’ di storia italiana sa quanto il ricatto costituisca da sempre un elemento condizionante la lotta politica, a volte un prerequisito. Purtroppo la prima reazione avuta dal “barone nero” Roberto Jonghi Lavarini all’inchiesta di Fanpage sulla “Lobby nera” («Ora nessuno provi a fare finta di non conoscermi» con tanto di foto insieme al duo nazionalsovranista Meloni/Salvini) autorizza qualche sospetto in merito.

Lo ha fatto, infine, perché più semplicemente ci crede? Forse è convinta che per governare l’Italia possa bastare mettersi alla testa di un’internazionale nazionalsovranista, di cui Vox è l’espressione spagnola e Viktor Orbàn, che ha incontrato un mese fa, quella ungherese; una rete che ha come obiettivo strategico la disgregazione dell’Europa, intrattiene rapporti e probabilmente riceve finanziamenti da gruppi di pressione e potenze straniere concorrenti che sono interessate alla crisi di quel progetto per ragioni soprattutto economiche.

Sarà un caso, ma appena si gratta sotto la pellicina del nazionalismo, dell’identitarismo, del sovranismo, del nativismo, escono sempre le ideologie infette della xenofobia, dell’antisemitismo, dell’omofobia e dell’intolleranza. Se così fosse non bisogna sottovalutare quanto avvenuto perché questa battaglia, che usa e abusa del passato con un eccesso di furbizia e spregiudicatezza, in realtà riguarda già il nostro presente e prossimo futuro: «Yo soy una mujer, soy una madre, soy italiana, soy cristiana», sì lo abbiamo capito «querida Giorgia», però, ancora una volta, «No pasaran».