L’UNITA’ E I PRESIDENTI: 1955 -GIOVANNI GRONCHI – L’elezione

Home / Iniziative / L’UNITA’ E I PRESIDENTI: 1955 -GIOVANNI GRONCHI – L’elezione
L’UNITA’ E I PRESIDENTI: 1955 -GIOVANNI GRONCHI – L’elezione

L’elezione dei Presidenti della Repubblica Italiana sull’organo del Partito Comunista Italiano

Sabato 30 Aprile 1955 – Anno XXXII (Nuova Serie)      N. 120 – Una copia L. 25 – Arretrata L. 30

Bruciante sconfitta dei candidati sostenuti da Fanfani e da Scelba

GRONCHI PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Il presidente della Camera ha avuto 658 voti contro 70 per Einaudi e 92 schede bianche – I 308 voti delle sinistre hanno deciso la vittoria di Gronchi, a cui, anche nell’ultimo scrutinio, i più faziosi tra i dc hanno negato il voto – Un grande applauso saluta l’elezione

La cronaca

«Proclamo eletto Presidente della Repubblica l’onorevole dottor Giovanni Gronchi». Con queste parole Il vicepresidente della Camera, on. Leone, ha annunciato ieri alla assemblea dei senatori, dei deputati e del delegati regionali Il nome del nuovo Capo dello Stato italiano, dopo aver comunicato l’esito della quarta votazione a scrutinio segreto:

PRESENTI E VOTANTI 833

MAGGIORANZA NECESSARIA 422

HANNO OTTENUTO VOTI:

GRONCHI 656

EINAUDI 70

VOTI DISPERSI 11

SCHEDE BIANCHE 92

SCHEDE NULLE 2

Hanno votate per Gronchi i comunisti, i socialisti, gli indipendenti di sinistra, la grande maggioranza dei democristiani e una parte dei monarchici. Hanno votato per Einaudi i partiti minori e qualche democristiano. Hanno votato scheda bianca, o hanno disperso i voti, i fascisti, alcuni democristiani e alcuni monarchici. Dal risultato del voto appare chiaro che le trecento e più schede delle sinistre sono state determinanti per l’elezione del nuovo Presidente. Quando Leone ha pronunciato la formula della proclamazione, tutta l’assemblea era in piedi. C’è stato un attimo di sospensione poi da sinistra. è cominciato a scrosciare un applauso che ben presto ha trascinato gli altri settori dell’assemblea in una lunghissima ovazione. In silenzio sono rimani i missini e parte dei monarchici. Al banco del governo, dopo molte esitazioni, Scelba si è associato con freddezza alla manifestazione di plauso e soltanto allora i ministri e i sottosegretari, che eran rimasti con le braccia rigide e Io sguardo rivolto in basso, hanno battuto le mani senza convinzione. Il presidente del Consiglio ha cessato di applaudire dopo qualche secondo, mentre ancora dalla gradinata dei banchi, dalle scalette e dall’emiciclo completamente gremiti il rumore degli applausi saliva alle tribune. Una voce da sinistra ha gridato: «Viva la Repubblica! Viva l’Italia».

Questa scena, illuminata dai fasci di luce dei riflettori per le riprese televisive e cinematografiche, si è prolungata per qualche minuto. Gli applausi più caldi venivano dalla sinistra, mentre alla sommità della «montagna » gli attuali capi della DC, da Fanfani a Moro, a Rumor e a Gui, stando proprio di fronte a Scelba, si comportavano esattamente come il presidente del Consiglio.

Ristabilitosi il silenzio Leone si è seduto e ha annunciato che si sarebbe recato col Presidente del Senato a comunicare all’eletto il risultato della vocazione, presentandogli il processo verbale della seduta che fa fede dell’avvenuta elezione e ne costituisce la ratifica. Quindi. Il segretario Mazza ha letto il processo verbale e l’assemblea, approvatolo per acclamazione si è sciolta alle 17,40. Questo l’atto conclusivo della solennissima seduta.

Ma ancor prima della proclamazione ufficiale, l’assemblea aveva tributato al nuovo Capo dello Stato un saluto plaudente particolarmente caloroso quando l’on. Gronchi, che aveva voluto procedere egli stesso allo scrutinio, aveva letto la 422^ scheda con il suo nome. Già da qualche minuto capannelli di parlamentari si eran raccolti intorno ai colleghi che facevano il computo dei voti. Il risultato della votazione era scontato, ma tutti aspettavano il momento in cui Gronchi, toccando la maggioranza prescritta di 422 voti, sarebbe stato non più il Presidente della Camera ma il Capo dello Stato.

Questo momento è giunto alle 17,05: le Poche schede che mancavano a Gronchi per essere eletto erano state praticamente contate ad alta voce nell’aula. Sicché quando Gronchi, per la 422ˆ volta, ha detto: «Gronchi», la sinistra è scattata in piedi in un applauso fragoroso. Dopo un attimo di incertezza, anche dal centro son cominciati i battimani dilagando verso la destra dove, però, una parte dei monarchici e missini si sono limitati a levarsi in piedi. Scelba si è alzato anch’egli con un sorriso di circostanza, seguito lentamente dai ministri e dai sottosegretari. Questo è stato però un semplice gesto di deferenza giacché né il presidente del Consiglio né gli altri membri del governo si sono associati all’applauso. L’immobilità e la freddezza di quella cinquantina tra ministri e sottosegretari che stavano al centro dell’aula, illuminati vividamente dai riflettori. facevano uno strano contrasto con l’atmosfera di entusiasmo che dominava l’assemblea, con le strette di mano che Merzagora, i vice-Presidenti delle due Camere e i segretari davano a Giovanni Gronchi. Neppure un ministro si è rivolto a guardare il Presidente eletto con sì largo suffragio.

Cessato l’applauso dei parlamentari si sono levati in piedi, in segno di omaggio e di plauso, i giornalisti italiani e stranieri che gremivano le tribune della stampa. Al risuonare di questi applausi anche il pubblico serrato come non mai nelle tribune, ha cominciata ad applaudire: i commessi sono intervenuti bonariamente e di malavoglia per imporre il rispetto della norma che vieta a chiunque assista alle sedute parlamentari di fare alcun cenno di assenso o di dissenso. Gronchi, in piedi, ha risposto con un inchino al saluto dei giornalisti e del pubblico. Grida di evviva alla Repubblica, al nuovo Presidente e all’Italia son sorte dai settore di sinistra, muovendo a nuovi applausi tutti i settori dell’assemblea, tranne quello di estrema destra e il banco del governo. In questo modo, attraverso la radio e la televisione, gli italiani hanno conosciuto il nome dell’uomo che per sette anni starà alla sommità dello Stato repubblicano.

L’atmosfera della seconda e decisiva seduta comune del Parlamento e dei rappresentanti regionali è stata, sin dall’inizio, molto diversa da quella della prima. L’aspetto della piazza del Parlamento, dei corridoi, del Transatlantico, dell’aula, era lo stesso di giovedì. Tuttavia, dopo la clamorosa ritirata di Fanfani e di Scelba, sul nome del futuro Presidente non gravavano più dubbi o interrogativi. Ma se l’attesa del risultato aveva perduto ogni drammaticità, i deputati, i senatori e i rappresentanti regionali che varcavano verso le 15 la scalea del Palazzo erano un po’ emozionati proprio perché certi che dall’urna, tra qualche ora, sarebbe uscito il nome del successore di Einaudi, della più alta autorità della Repubblica, dell’uomo che rappresenta tutti i cittadini .Sono le 15,15 quando i primi parlamentari entrano nell’aula e si fanno consegnare dai commessi la scheda bianca, la scheda che deciderà. Si tratta di deputati e senatori della sinistra che ben presto riempiono questo settore dell’assemblea, quando ancora gli altri sono quasi completamente vuoti. I democristiani, infatti, si sono attardati fino alle 15 passate nella riunione dei loro gruppi a palazzo Barberini.

Le tribune del pubblico son gremite già da parecchio. In quelle che sovrastano il centro destra e la destra le donne e le ragazze sono in maggioranza e le gonne e le camicette celesti, blu mare, bianche, gialle, balzano agli occhi nella luce vivida dei riflettori. A sinistra si notano due anziani sacerdoti con la barba. Togliatti entra alle 15,30 e si siede al suo solito posto, al centro dell’estremo settore di sinistra. Restano in piedi sull’ultima scaletta Scoccimarro, Longo, D’Onofrio, Pajetta, Secchia. Con otto minuti di ritardo sull’orario fissato, entra Gronchi e sale con passo giovanile la scaletta che lo porta al seggio. Merzagora si è attardato a chiacchierare con qualche amico e arriva con un leggero ritardo, applaudito dalla maggioranza. Pajetta commenta «Prima lo bruciate, poi l’applaudite». Merzagora si inchina verso il centro, stringe la mano a Gronchi e si siede. Il banco del governo è stranamente deserto. Non c’è Scelba, non c’è Saragat (il quale farà una semplice apparizione per votare e scomparirà subito dopo, rinunciando ad assistere ai momenti più solenni della seduta), mancano la stragrande maggioranza dei ministri e dei sottosegretari.

La votazione comincia ancora una volta dai senatori, dopo che Gronchi ha avvertito che per questo quarto scrutinio è sufficiente raggiungere la semplice maggioranza assoluta dei membri dell’assemblea. A fare l’appello è il segretario Guadalupi, a spuntare i nomi stanno Giuliana Nenni, Marzola e Russo. Tutto procede nella più assoluta normalità. Soltanto quando vota De Nicola un applauso unanime lo saluta. Il primo Presidente della Repubblica italiana si inchina verso l’assemblea, stringe la mano a Gronchi e a Merzagora e fa per avviarsi all’uscita, dimenticando di impostare la scheda nell’urna. Poi si accorge della distrazione, torna indietro sorridendo e vota. Altro piccolo fatto nuovo: la stragrande maggioranza dei votanti, prima di liberarsi della scheda fa un cenno di ossequio a Gronchi. Esauriti i senatori e i rappresentanti regionali è la volta dei deputati. Ma tra questi si frammischia Sturzo, venuto ieri per la prima volta a votare per il Presidente. I democristiani lo applaudono e il vecchio sacerdote. l’unico che faccia parte del Parlamento, risponde con sorrisi e cenni di benedizione. All’uscita del corridoio alcuni democristiani si affrettano a baciargli la mano. Alle 16.30 Giolitti sostituisce Guadalupi nella chiamata dei deputati e soltanto a quest’ora arriva Scelba. Il lampo dei flash marca il voto delle personalità: Nenni. Scelba, Togliatti e delle più eleganti deputate.

Sono le 16,40 quando Gronchi dichiara chiusa la votazione e procede allo spoglio delle schede. Immediatamente il brusio che ha caratterizzato questa fase della seduta si placa di colpo. Il primo voto che Gronchi legge è stavolta per lui, segue un suffragio per Segni, uno ancora per Gronchi, uno per Einaudi, un terzo voto per Gronchi cui ne segue subito un altro, quindi una scheda bianca. Quando sono state scrutinate una decina di schede il nome di Gronchi risuona ininterrottamente nel silenzio dell’aula per ben dodici volte. L’interrompe una scheda bianca e poi ricomincia la serie. Non è passato neppure un minuto dall’inizio dello spoglio e la situazione è già chiara: la stragrande maggioranza dei suffragi converge sul Presidente della Camera. Gli occhi di tutti son rivolti sul protagonista e Gronchi sostiene con grande naturalezza il ruolo straordinario che la sorte gli ha affidato. La sua voce non tradisce né emozione né esitazione. Il tono della voce è sempre lo stesso. Merzagora, al suo fianco, lo aiuta a sistemare le schede in vari mucchietti. Ben presto ci si accorge che proprio Merzagora mette a posto le schede segnate col nome di Gronchi. Le altre, e cioè quelle per Einaudi, le bianche, le disperse e le nulle, le dispone Gronchi davanti a sé. Il primo voto disperso che suscita commenti ironici è quello attribuito all’on. Ida Matarazzo, deputata monarchica. Il susseguirsi del voti per Gronchi non lascia ormai alcun dubbio sul risultato finale e molti scrutatori volontari desistono dal tenere i conti. Tuttavia la tensione nell’aula è sempre viva. D’un tratto Gronchi si sbaglia. Pronunciato il suo nome, si corregge precipitosamente: «No. Einaudi». E poi si mette a ridere. Merzagora ha un gesto di fastidio quando spunta dall’urna un voto per lui. Un voto tocca anche a Zoli, tra gli Immancabili mormorii. Ma ben presto si arriva alla 422^ scheda per Gronchi e l’assemblea si abbandona alla manifestazione di plauso che abbiamo descritto all’inizio. Il banco del governo è ora di nuovo al completo: manca soltanto il povero Saragat. Quando Gronchi ha largamente superato i 500 voti accade un fatterello che desta irrefrenabile ilarità.

Facendosi largo a fatica dietro le sedie dei ministri. un commesso si dirige verso il centro del banco del governo recando in mano un vassoio con un bicchiere di liquido bruno. Giunto all’altezza di Scelba, che sta conversando con Martino, il commesso si inchina e porge il vassoio al Presidente del Consiglio. Scelba si volta d’improvviso e fa un gesto di diniego. Da sinistra una voce grida: «Bevilo! E’ un cynar! ». Uno scoppio d’ilarità si propaga nell’aula. Scelba capisce io scherzo che gli è stato giuocato e diventa paonazzo fin sul cranio. Poi impallidisce, mentre anche i suoi colleghi di governo ridono. Alla fine, quando nessuno si tiene più, il viso di Scelba si sforza in un sorriso e in un gesto di apprezzamento per il misterioso autore della trovata, che è servita a mettere comicamente a nudo tutta una situazione politica. Il gesto, è inutile i dirlo, era rivolto alla sinistra, donde partivano le risate più rumorose e gli applausi più divertiti.

Pochi minuti dopo, alle 17 e 20, lo spoglio delle schede termina e Gronchi dice: «Prego i segretari di procedere al computo dei voti. Sono le ultime parole che Gronchi pronuncia dal seggio di Presidente della Camera. Poi si alza per cedere il posto a Leone. Mentre s’avvia all’uscita, lo saluta un applauso di tutta l’assemblea (ad eccezione del fascisti e di Scelba), gli si fanno intorno per stringergli la mano i membri dell’ufficio di Presidenza e i funzionari e da sinistra. risuona il canto dell’Inno di Mameli. Qualche monarchico grida: « Viva il re» zittito dallo stesso Covelli. Ben presto Il canto dell’inno nazionale copre ogni dissenso. Poco dopo l’uscita di Gronchi anche Merzagora lo segue facendosi sostituire dal vice-Presidente del Senato, on. Bo. Infine, dopo qualche minuto di attesa per la compilazione del verbale, si ha la proclamazione che abbiamo già descritto.

__________________________________________________________

Il giudizio di Togliatti

I comunisti si augurano che l’evidente sconfitta della faziosità clericale e governativa possa essere l’inizio di un ritorno a una normalità di rapporti democratici fra tutti i partiti, e che sotto l’egida del nuovo Presidente vengano assicurati la piena attuazione e il rispetto scrupoloso della costituzione.

Il compagno Palmiro Togliatti ha fatto all’unità la seguente dichiarazione sull’elezione del Presidente della Repubblica:

« Noi comunisti salutiamo, prima di tutto, il fatto che il nuovo Presidente della Repubblica sia stato eletto con una larga, imponente maggioranza di voti. È un segno di solidità del regime democratico parlamentare e per questo ci rallegra.

Il nostro gruppo si è attenuto, nelle successive votazioni, alle sue decisioni precedenti. Abbiamo dato dapprima i nostri voti compatti a Ferruccio Parri, e la grande affermazione che ha avuto luogo sul suo nome rimane come nobile e significativo fatto nella vita della Repubblica. In seguito, a partire dal secondo scrutinio nel quale votammo in attesa scheda bianca, si fece strada il nome dell’onorevole Giovanni Gronchi, in aperto contrasto con il candidato ufficiale della democrazia cristiana e del governo. Decidemmo di favorire questa candidatura, sia per le qualità del candidato, quanto perché non solo non si presentava legato a strette posizioni di partito, ma oggettivamente assumeva una funzione quasi di rottura di queste posizioni. Sul nome dell’on. Gronchi confluirono quindi una parte dei nostri voti al terzo scrutinio e tutti i voti al quarto, che fu decisivo.

Oggi è soprattutto da sottolineare lo scacco subito in modo clamoroso dal gruppo dirigente Scelba-Fanfani-Saragat. Questo gruppo, pur essendo nel suo interno diviso da gelosie e rivalità insuperabili, avrebbe voluto dare alla scelta del Presidente la consuete impronta di faziosità e si mosse senza tener conto né delle opinioni esistenti nel partito democratico, né in particolare dei 300 deputati della sinistra, che siedono in Parlamento in rappresentanza di 10 milioni di cittadini. Il piano fazioso di questo gruppo reazionario è stato spezzato dal Parlamento: nonostante che in modo inammissibile e offensivo per l’Italia si sia persino cercato di far pesare sui parlamentari la volontà, vera o pretesa, di un governo straniero. La democrazia cristiana è stata costretta a piegarsi, riuscendo eletto un uomo verso cui potevano confluire voti da tutti i settori. i partitini satelliti del governo clericale ancora una volta hanno avuto la prova che il loro servilismo li condanna a scomparire letteralmente dalla scena politica.

I comunisti si augurano che questa evidente sconfitta della faziosità clericale e governativa possa essere l’inizio di un ritorno a una normalità di rapporti democratici fra tutti i partiti, e che sotto l’egida del nuovo Presidente vengano assicurati la piena attuazione e il rispetto della Costituzione repubblicana. »

__________________________________________________________

Diciotto ore di vane manovre di Scelba e Fanfani culminate nell’umiliante ricatto delle “commesse”

Qualche giornale romano ha diffuso ieri sera la noti-zia di prossime dimissioni di Fanfani, di un congresso democristiano straordinario, di (certa crisi del governo Scelba, come conseguenze della sconfitta — di incalcolabili proporzioni — subita dal segretario della DC e dal Presidente del Consiglio nella battaglia che ha portato lo on. Giovanni Gronchi alla Presidenza della Repubblica italiana. Se queste notizie sabbiano fondamento non si sa (anche se le dimissioni di Scelba nelle mani del nuovo Presidente sono formalmente inevitabili). Neppure si sa se meriti credito la voce di una imminente uscita del PSDI dal governo. Quel che è certo è che la sconfitta di Fanfani e Scelba e del quadripartito è stata, parallelamente alla costante iniziativa delle sinistre, l’elemento che ha caratterizzato in modo clamoroso le ultime 36 ore L’esito del terzo scrutinio ha fin dalla notte scorsa costituito una spina che Fanfani e Scelba non son più riusciti a togliersi dal fianco. Quel risultato significava che, sulla carta, la elezione di Gronchi — in contrapposto ai candidati fanfaniani e governativi — era già possibile, quasi un fatto compiuto: i 281 voti raccolti da Gronchi, col concorso delle minoranze democristiane, dei socialisti e di un certo numero di comunisti, diventavano più di 422 se vi si sommava la gran parte dei voti comunisti espressi ancora in schede bianche.

La stampa governativa e borghese ha mostrato di rendersene perfettamente conto, uscendo ieri mattina con i commenti più allarmati, e suggerendo le più diverse soluzioni pur di impedire la elezione dell’onorevole Gronchi. «Non si capisce come si possa definire una carica così qualificata — ha scritto il cattolico Quotidiano — contro le deliberazioni del Partito, anzi con i voti del suoi avversari». «Fanfani e i suoi amici non vogliono Gronchi — ha scritto la ” Stampa ” — e neppure Einaudi: in entrambi i casi subirebbero la più grossa sconfitta della propria carriera». «Concentrare i voti sull’on. Gronchi — ha scritto il liberale Panfilo Gentile sul “Corriere” — significherebbe un premio dato ai ribelli, una resa della maggioranza alla minoranza… Non resta che trovare l’accordo su un nome diverso. Se nemmeno questa soluzione fosse trovata, sarebbe inevitabile la vittoria di quel candidato che ottenesse i voti dei socialcomunisti»!

Dalle prime ore della mattina fino a poco prima del voto finale, nessuno sforzo è stato infatti risparmiato da Fanfani e Scelba per cercare di risalire la china, comporre una qualsiasi maggioranza, impedire l’elezione di Gronchi. Scelba ha avuto un ennesimo colloquio con lo stesso Gronchi per invitarlo a ritirare la candidatura, ricevendone ovviamente lo stesso rifiuto che già Fanfani aveva ricevuto la notte prima. Quando questa strada è apparsa impraticabile, lo sforzo di Scelba e Fanfani si è rivolto a cercar di ritrovare una unità quadripartita attorno al nome di Einaudi: un nome che era stato esposto a una cattiva sorte fino a quel momento e che i partitini hanno voluto abbassare — ed è stato il loro peggior torto — a strumento del governo. Un incontro quadripartito non si è potuto però neppure tenere, dato «il caos» — come ha riferito ai socialdemocratici l’on. Elisabetta Conci — che regnava ai vertici della D. C. Per avanzare in qualche modo la candidatura di Einaudi si è ricorsi a un altro sistema: si è chiesto a Merzagora di rinunciare pubblicamente alla sua candidatura indicando in Einaudi l’uomo attorno al quale avrebbe potuto raccogliersi quella maggioranza che allo stesso Merzagora era mancata. Socialdemocratici e liberali facevano propria la candidatura Einaudi; ma quello di Merzagora doveva solo rivelarsi come l’ultimo gesto anacronistico e inopportuno chiesto dalla D. C. al Presidente del Senato. La candidatura di Einaudi, infatti, non ha trovato nessuna fortuna nella riunione plenaria che, nella tarda mattina, i gruppi parlamentari democristiani hanno tenuta. Questa riunione ha segnato, per Fanfani e Scelba, l’ultima sconfitta. L’on. Andreotti ha notato che, assai probabilmente. Einaudi avrebbe finito per subire la sorte di Merzagora: semmai Fanfani avrebbe dovuto pensarci prima. I rappresentanti delle minoranze democristiane non hanno nascosto che non vi era ormai che una via per Fanfani e Scelba: accettare la candidatura Gronchi.

Ed è forse a questo punto, che l’avversione giurata del segretario della D.C. e del Presidente del Consiglio alla candidatura Gronchi si è palesata nel modo più brutale. Nella speranza di far convergere i voti, se non su Einaudi, almeno su Segni, è stata raccolta e portata in seno ai gruppi la voce di una ostilità americana alla elezione di Gronchi. il sottosegretario agli esteri, on. Benvenuti, e stato il protagonista di questo episodio. Egli ha dichiarato che «fremeva d’orrore» al solo pensiero dei dispacci che sarebbero pervenuti sul tavolo del ministero degli esteri in caso di una «vittoria comunista» realizzata con la elezione di Gronchi. Benvenuti ha soggiunto che egli si sarebbe dimesso (e lo stesso ha fatto intendere Scalfaro) se Gronchi fosse stato eletto. Se  Benvenuti si dimetterà si ignora: certo è, invece, che le sue parole non hanno fatto che riecheggiare gli incredibili concetti espressi già il giorno avanti da Scelba e riferiti dalla « Stampa » di Torino in questi termini: «E’ chiaro che, se Gronchi riesce eletto con i voti delle sinistre, contro le indicazioni dei dirigenti del nostro partito, ci troveremo davanti a conseguenze di estrema gravità. Siate sicuri che una situazione di questo genere farebbe perdere al nostro Paese, sul piano internazionale, molto del prestigio che ha cosi faticosamente riconquistato. Avete visto con quanta attenzione i rappresentanti diplomatici stanno seguendo queste votazioni?»

Il ricatto delle “commesse” spostato dalle fabbriche al Parlamento, in-somma! I gruppi democristiani hanno reagito al discorso di Benvenuti, che è stato zittito. Lo stesso Scelba ha dovuto prender la parola e smentire che esistesse un qualsiasi veto americano alla elezione di questo o quel candidato. A sua volta Fanfani, ormai ridotto con le spalle al muro, ha preso la parola per lasciar libero il gruppo di decidere sulla scelta del candidato. I conti ormai erano semplici: né su Einaudi, né su Segni, né su un altro democristiano, avrebbe potuto realizzarsi alcuna maggioranza. Far propria la candidatura di Gronchi era l’unica strada ancora aperta. E cosi, alle ore 15, un comunicato ANSA ha informato che i gruppi democristiani avevano a maggioranza e cioè senza unanimità, indicato in Gronchi al proprio candidato. Più tardi si è appreso che, su 300 votanti, ben 130 democristiani si sono espressi in seno al gruppo contro la candidatura Gronchi. E neppure dopo il voto dei gruppi fanfaniani e scelbiani hanno del tutto saputo incassare: l’esito del voto, e l’atmosfera stessa in cui è stato espresso, ne hanno offerto l’ultima testimonianza. Se dai 658 voti ottenuti da Gronchi si sottraggono i 308 voti dei comunisti, dei socialisti, e degli indipendenti di sinistra, ne risulta che gli altri voti in favore di Gronchi sono stati 350. Questo significa, prima di tutto, che i voti della sinistra sono stati determinanti per l’elezione del nuovo Presidente, poiché 350 voti sono di 72 voti al di sotto della necessaria maggioranza (422). Ma questo significa, anche, che circa 50 democristiani sicuramente non hanno votato per Gronchi. Il gruppo democristiano conta 384 voti, infatti; e risulta che, oltre a singoli senatori, una parte dei monarchici ha votato Gronchi. I 70 voti per Einaudi non sono solo voti dei partitini, ma anche di alcuni democristiani: e così le schede bianche, in gran parte monarchiche e fasciste, sono anche di altri democristiani. Secondo un commento dell’agenzia fanfaniana «Italia», anzi, ben 115 o 130 democristiani avrebbero votato contro Gronchi, in quanto tutte le destre avrebbero votato in suo favore (le schede bianche sarebbero in tal caso tutte democristiane).

In definitiva, tutte le indicazioni politiche che si possono trarre dalle quattro memorabili votazioni di questi giorni conducono, dagli episodi iniziali fino ai conclusivi, secondo un filo logico e con evidenza abbagliante, ad una unica conclusione. La conclusione è che la maggioranza governativa e quadripartita è apparsa in questa occasione quella che è: una finzione. La conclusione è che la faziosa politica di Scelba, e la faziosa politica di Fanfani, hanno determinato una frattura profonda nella D.C., una frattura che per la prima volta ha trovato una precisa espressione politica e parlamentare e ha determinato la sconfitta dell’uno e dell’altro dei due dirigenti clericali e della loro politica. La conclusione è che i piccoli partiti, prigionieri della finzione quadripartita, sono scomparsi in questa occasione dalla scena: la loro voce non si è neppure udita. La conclusione è infine che dal primo momento all’ultimo è apparso in luce piena quel che dal 7 giugno ad oggi i faziosi si ostinano a negare: il peso determinante dei comunisti e dei socialisti — forza la più compatta nel Parlamento — e quindi l’impossibilità di dare vita a una vera maggioranza e quindi a una politica nazionale contro o senza questa forza. E c’è forse perciò, al di là della stessa sconfitta di Scelba e Fanfani, una conclusione più generale che dovrà essere tratta dalla felice elezione a grande maggioranza democratica del Capo dello Stato: ed è la riprova che tre sono i partiti che rispecchiano gli orientamenti della stragrande maggioranza della Nazione. e che solo sulla base di questa constatazione è possibile trarre il Paese dalla crisi e determinare — nel Parlamento e nel Paese — un clima di distensione per una buona e fattiva politica, interna e internazionale.

__________________________________________________________

Cronaca di due notti e due giorni tempestosi per i democristiani

Quando si era già delineato il risultato del voto un commesso ha portato all’on. Scelba un «Cynar» – I giornalisti governativi avevano già preparati i loro “pezzi”, sul candidato di Fanfani – Affannosi intrighi notturni dei dirigenti d.c. – “Ricordate la fine di Ruini?” – La segretaria del Gruppo democristiano esclama: “Nella D.C.regna il caos”

Sono stati tre giorni veramente tirati per i giornalisti parlamentari : i quali hanno avuto almeno la soddisfazione, compiendo un ultimo salto mortale, di presentarsi alla solenne seduta cui ormai cera certo sarebbe uscito il nuovo Presidente della Repubblica, sbarbati di fresco e col doppio petto spolverato; mentre laggiù, al banco del governo, in fondo alla grande aula dl Montecitorio, sedevano non pochi personaggi dagli abiti stazzonati, gli occhi rossi di sonno, l’ombra scura della barba – e del disappunto -sul volto.

Il gran correre, la serie delle riunioni e dei pasti saltati hanno avuto inizio l’altro ieri, quando furono annunciate diverse riunioni di gruppi parlamentari di maggioranza; riunioni indette per «vederci chiaro», per «tirare le somme», per «prendere una decisione», per «raggiungere un accordo».

Terribile decadenza di questa terminologia parlamentare: in realtà, se essa avesse avuto una concreta attinenza con la realtà, non si sarebbe faticato tanto. IL fatto è che tra le schiere della maggioranza nessuno «vide chiaro nessuno», nessuno «tirò le somme», né «prese una decisione» seria, né «raggiunse un accordo».

Anzi tutta la lunga catena di disaccordi, di intrighi e di voltafaccia, cui la direzione democristiana era ricorsa per dare ancora un po’ di respiro al governo ormai agonizzante. esplose in modo violento.

Tutto ciò era molto evidente, balzava agli occhi senza bisogno di spiegazioni; pure, restavano gli inimitabili giornalisti democristiani, i cronisti politici dei grossi fogli indipendenti i deputati e i dirigenti democristiani, socialdemocratici e liberali a fare gli « ottimisti a tutti i costi».

Tutto pronto

Così cominciarono i dolori. Quando i direttivi dei gruppi parlamentari democristiani designarono il candidato ufficiale del loro partito, i giornalisti governativi corsero a preparare la biografia di Merzagora. « Ecco fatto – dicevano all’inizio delle votazioni, ieri – ecco conte funzionano i grossi giornali. Tutto pronto. Voi invece dovrete faticare stasera, quando noi saremo al cinema. Anche Merzagora contribuì a formare questa sicurezza negli sventurati colleghi: accettò la candidatura che i dirigenti d.c. andarono ad offrirgli, in quanto riteneva «di non potersi esimere dal dare il suo contributo alla costituzione della maggioranza necessaria per risolvere questo problema fondamentale».

«Che volete di più – dicevano gli ottimisti – lo dice anche lui».

In realtà, in seno ai direttivi d.c. erano accadute cose che avrebbero dovuto far rizzare le orecchie; dagli interventi di Andreotti e di Gonella s’era capito chiaramente che una parte della D.C. non avrebbe seguito le direttive di Fanfani e della direzione. Rapelli -che novera tra le sue qualità quella parlare a tutte lettere aveva chiesto una cosa ragionevole: «Vi appellate alla disciplina di partito; ma, almeno, questa volta lasciateci liberi di scegliere un Capo dello Stato la cui elezione non significhi esclusivamente un calcolo politico a vantaggio della direzione democristiana e dell’attuale governo

Dopo le due prime votazioni in cui Merzagora aveva racimolato poco più di duecento voti, i fanfaniani si scatenarono. Scelba e Fanfani presiedettero una riunione dei dirigenti d c.: fu stilata in fretta e furia una lettera intimidatoria nei confronti dei parlamentari democristiani. perché votassero il nome stabilito. I giornalisti boccheggiavano fuori dell’uscio. Alla terza votazione Merzagora ebbe appena una decina di voti in più e sul nome di Gronchi si riversarono invece anche i voti dei socialisti. Di fronte alle affannate e oscure manovre di Scelba e Fanfani, Gronchi si comportò in modo impeccabile: se avesse indetto subito la quarta votazione, per la quale egli avrebbe potuto contare anche su tutti i voti dei comunisti e ottenere la maggioranza necessaria, la sua elezione sarebbe stata certa. Scelba e Fanfani però non si davano per vinti e chiedevano un rinvio di un giorno, con l’evidente scopo di riuscire a far naufragare la candidatura di Gronchi. Gronchi, senza esitazione, accordò il rinvio.

Manovra fallita

La notte, si dice, porta consiglio. Invece in quella trascorsa si capi definitivamente che la notte portava male ai dirigenti d.c. I quali commisero tal serie di gaffes che difficilmente sarà possibile stendere su essa il velo dell’oblio: prima Bo, poi Scelba, poi Fanfani e Rumor si recarono da Gronchi per invitarlo a ritirarsi. Dicono le indiscrezioni che il Presidente delta Camera fu freddo e reciso: ricordò che egli non era il candidato di nessuno in particolare e che non vedeva il motivo né la possibilità di a ritirarsi.

Per tutta la mattinata i democristiani si susseguirono in riunioni: prima i direttivi, poi i gruppi al completo. Gronchi non si lasciava intimidire e si fece ricorso allora alla peggiore delle armi, la più sleale; e perfino qualche giornalista prestò. Si fece circolare la voce a Montecitorio che Gronchi si sarebbe ritirato, con la sciocca convinzione che i parlamentari avrebbero «abboccato» e, traendo le conseguenze, avrebbero votato un altro nome. Si sussurrò al orecchio di quei democristiani che sostenevano Gronchi che i socialisti ed i comunisti non avrebbero più votato in suo favore e che perciò i loro voti sarebbero stati sprecati. Era venuto a galla a Montecitorio, con tutta la sua forza, quel clima di intrigo e di corruzione che domina le assemblee democristiane e il quadripartito. Ma fu respinto. I poveri deputati democristiani non andarono nemmeno a mangiare, per partecipare all’ultima riunione dei loro gruppi, dove si tentò l’estrema manovra: quella, cioè, di convincerli a votare., se non per Merzagora, almeno per un candidato che non fosse Gronchi. Ma anche questo tentativo non riuscì. L’aria s’era fatta veramente irrespirabile; il nervosismo assumeva forme esasperate : i giornalisti venivano scacciati in malo modo – perfino dai corridoi di Palazzo Barberini dove la riunione si svolgeva – da tipici figuri con baffi e scarpe rossastre. Si vendicavano ricordando la triste sorte di tutti coloro i quali «vengono favoriti» dalla direzione democristiana. «Ve la ricordate la fine di Ruini? Adesso tocca a Merzagora. Io non accetterei più una raccomandazione da loro nemmeno per la Società protettrice degli animali». Elisabetta Conci, la segretaria del gruppo d.c., era disperata: comunicava ai socialdemocratici – i quali chiedevano una riunione comune – che «nella D.C. regna il caos ».

Quando a Palazzo Montecitorio iniziò la seduta c’era commozione. Ormai i dirigenti d.c. erano rassegnati alla sconfitta. Pure qualche «speranzella» Scelba e Fanfani la covavano ancora. Come Gronchi cominciò leggere le schede, nel più profondo silenzio, ogni dubbio si dissipò: Gronchi, Gronchi, Gronchi, Gronchi… Quando la 422sima scheda con questo nome uscì dall’urna sanzionando la sua elezione a Capo dello Stato, un irrefrenabile applauso scoppiò sui banchi dell’estrema sinistra e dilagò – dopo appena un attimo di incertezza – sui banchi democristiani, su tutta l’Assemblea, in piedi. Anche Gronchi si alzò, anche Merzagora, al suo fianco, mentre si acclamava a voce alta alla Repubblica; si alzarono i giornalisti dalle tribune e rinnovarono l’applauso; e quando Io scrutinio si chiuse, mentre si contavano i voti e Gronchi si allontanava perché proclamazione avvenisse in sua assenza, dai banchi di sinistra si levò l’inno di Mameli e ancora tutti scattarono in piedi. Applaudendo, anche il pubblico nelle tribune, e i commessi per questa volta lasciarono fare.

Ma prima che la proclamazione avvenisse, quando era ormai certa l’elezione di Gronchi, si vide un commesso recante un vassoio attraversare l’emiciclo, infilarsi dietro il banco del governo e porgere a Scelba un bicchiere di «Cynar». Una risata omerica scoppiò su tutti i banchi. Anche Scelba rise, ma chiaramente a disagio, respingendo il bicchiere. Non si seppe chi aveva organizzato la spiritosa beffa.

GIORGIO ROSSI

__________________________________________________________

Le ultime «terribili» quarantott’ore

“Gaffes” e infortuni dei giornali governativi – Le profezie della «Stampa» e del «Corriere» -L’azione cattolica minaccia di non far rieleggere i dissidenti d.c. – Le capriole del «Giornale d’Italia»

Sono state, queste ultime, quarantott’ore di salti mortali per gli sperimentati «forgiatori» dell’opinione pubblica governativa. Delle più atroci gaffes dei più penosi infortuni sono rimasti vittime non i più sprovveduti e avventati fra i giornalisti borghesi. ma gli stessi «primi della classe».

L’illustre Panfilo Gentile – per esempio – che ama farsi chiamare liberale e montare in cattedra a impartire la saggia lezione – ancora ieri mattina, dopo quel po’ po’ di risultati dei primi tre scrutini, che avrebbero messo sull’avviso anche un elefante, affermava sulle colonne del Corriere della sera che nemmeno probabile sembra la seconda soluzione (cioè quella di «concentrate gli sforzi Gronchi »). E aggiungeva: «Essa significherebbe un premio dato ai ribelli, una resa della maggioranza alla minoranza… Sembra superfluo avvertire che sarebbe una soluzione gravida di conseguenza all’interno e all’estero. All’interno sarebbe difficile far sussistere l’attuale maggioranza della coalizione governativa. All’estero sarebbe accolta come una indicazione contraria alla politica fin qui seguita della solidarietà atlantica e della difesa europea».

Anche il solitamente «informatissimo» Vittorio Gorresio, sulla Stampa di Torino, [nel passo che qui riproduciamo], scartava ieri le possibilità della candidatura Gronchi.

Vi è poi la categoria dei giornali che, in tono qui accorato, là minaccioso, invocavano una resipiscenza da parte dei «ribelli» agli ordini di Fanfani e di Scelba. Così il Tempo si augurava che «all’ultim’ora il senso civico potrà prevalere sulle più o meno astute manovre politiche», mentre il Messaggero – [del quale riproduciamo un significativo brano] – invitava i dissidenti democristiani a non fare il giuoco della «speculazione» dell’estrema sinistra.

Senz’altro minatorio è l’organo della Azione cattolica, in un corsivo dal sintomatico titolo «Responsabilità»: «Questo strano comportamento della rappresentanza democristiana scrive il Quotidiano – non può non essere argomento di meditazione da parte dell’elettorato, al quale, in definitiva, spetterà di pronunciare il suo pensiero su quanti ora sono elettori (cioè i membri del Parlamento, che hanno eletto il presidente della Repubblica), ma domani chiederanno a questo medesimo elettorato cattolico di esserne gli eletti e cioè di rappresentarlo. «Se non marciate dritti – in altre parole – signori senatori e deputati democristiani, metterete a repentaglio le vostre medagliette parlamentari! Ma si è visto ieri il fallimento anche di questo durissimo monito.

Ma l’infortunio più clamoroso, la «gaffe» più infelice sono capitati – e come poteva essere diversamente? – a Santi Savarino. Il passionale senatore democristiano di Partinico aveva dettato un acceso corsivo, che veniva pubblicato nella prima edizione del Giornale d’Italia e ripreso anche nella successiva edizione, uscita poco dopo le ore quindici, quando già era nota la decisione dei gruppi democristiani di votare Gronchi, tanto che lo stesso giornale ne dava notizia nel grande titolo a nove colonne.

Ebbene, nel corsivo, invece, si minacciava ancora il finimondo se avesse prevalso la candidatura Gronchi: «due crisi si aprirebbero subito: quella del governo e quella della segreteria del partito»; si affermava che le sinistre tentano di far passare il contrabbando della loro politica sotto le ali protettrici dell’on. Gronchi e si concludeva: «E ora non resta altro da fare, perché gli eversori della coscienza pubblica non abbiano il sopravvento, che far blocco sul nome dell’on. Einaudi. Se cosi avverrà. come è sperabile. il nome di Einaudi uscirà vittorioso dal primo scrutinio ».

Ma ecco, sono passate che decine di minuti, è bastato lo scrutinio delle prime schede, per avere la certezza di una larghissima maggioranza a favore del nuovo Capo dello Stato. Che farà il povero Savarino? Si dimetterà dal giornale al quale ha fatto fare una cosi storica «magra»? Niente affatto. Imperturbabile, l’impetuoso senatore democristiano di Partinico. nella successiva edizione del Giornale d’Italia, in una colonna di piombo, che il successo della candidatura Gronchi è un ottima, una magnifica cosa, che non ci si attendere una figura migliore.

Ammappelo che capriole, senatò….

__________________________________________________________

La figura di Gronchi

Fu tra i fondatori del Partito popolare – Rappresentante dc nel CLN – L’attività di governo con Bonomi e Parri – La lotta per la Repubblica – «Politica Sociale» e l’apertura verso le classi lavoratrici

Il nuovo Presidente della Repubblica, on. Giovanni Gronchi, è nato a Pontedera, in provincia di Pisa, il 10 settembre 1887, da famiglia di modeste condizioni economiche. Ha compiuto gli studi universitari e si è laureato prima in lettere, poi in giurisprudenza. La sua attività politica comincia all’alba del secolo ventesimo. Ancora adolescente, entra nelle file delle organizzazioni cattoliche e, alla vigilia della prima grande guerra mondiale, è fra gli organizzatori dei sindacati cristiani, fra i fondatori e amministratori di casse rurali. cooperative cattoliche e «leghe bianche».

Presidente del Consiglio regionale toscano della Gioventù cattolica italiana, è l’organizzatore principale del I° Congresso dei giovani cristiani. Scoppiata la guerra, vi partecipa come volontario e vi guadagna una medaglia d’argento, due medaglie di bronzo e due croci di guerra. Nel 1919, è uno dei fondatori del Partito popolare. In quello stesso anno, viene eletto deputato nel collegio di Pisa e Livorno e, poco dopo, è chiamato a dirigere, come segretario la Confederazione dei lavoratori cristiani, i cosidetti «sindacati bianchi». Al tempo stesso, Gronchi entra a far parte del direttorio del gruppo parlamentare del Partito popolare. Dopo la marcia su Roma, quando il Partito popolare decide di dare il proprio appoggio al primo governo Mussolini. Gronchi entra a farne parte, in qualità di sottosegretario alla Industria e Commercio. Ma successivamente Gronchi si dimette dalla carica, passa all’opposizione e, dopo lo assassinio di Matteotti, è fra gli esponenti dell’Aventino. Dichiarato decaduto dal mandato parlamentare, si ritira a vita privata e, fissata la sua residenza a Milano si dedica ad attività commerciali e industriali.

Quando il nazismo e il fascismo precipitano l’Europa nel baratro della guerra, Gronchi ritorna, nella clandestinità, alla lotta politica, riannodando contatti con i gruppi antifascisti dell’Italia settentrionale. Dopo l’8 settembre, trasferitosi a Roma, rappresenta la risorta Democrazia cristiana in seno al Comitato di liberazione nazionale, che dirige la Resistenza e la lotta annata contro i tedeschi e i fascisti. Liberata la Capitale, entra a far parte del primo ministero Bonomi, come Ministro dell’Industria e Commercio. Conserva tale incarico nei successivi ministeri Bonomi e Parri (il primo, questo, dell’Italia liberata) e nel primo ministero De Gasperi (dal 10 dicembre 1945 al 1° luglio 1946). Nella battaglia del 2 giugno. Gronchi si schiera apertamente per la Repubblica ed è uno degli esponenti della corrente Repubblicana in seno alla D.C. Eletto deputato all’Assemblea Costituente nel XVI collegio di Pisa, Giovanni Gronchi, al termine della sua attività di governo, è nominato presidente del gruppo parlamentare democristiano. Continua a svolgere, nel frattempo, attività sindacale quale presidente del comitato di intesa, sino all’uscita della sua corrente dalla CGIL, dopo lo sciopero generale di protesta contro l’attentato a Togliatti.

Il 18 aprile era stato rieletto deputato alla Camera, sempre nella circoscrizione di Pisa, e nel maggio aveva assunto la presidenza di quel ramo del Parlamento, incarico riconfermato fino a ieri. Nel giugno 1949 fu riconfermato fra i membri della direzione nazionale della Democrazia cristiana, ma successivamente ne uscì. Attorno alla sua figura, si è formata una corrente che ha preso il nome di «Politica sociale», e che ha svolto funzioni di critica ai governi De Gasperi, caldeggiando una linea politica nuova, di apertura verso le classi lavoratrici e le forze organizzate che le rappresentano. Contando al suo attivo un totale di sette legislature, Giovanni Gronchi è uno dei deputati che vantano la maggiore anzianità parlamentare. Il 2 giugno 1946 ebbe 45.000 voti preferenziali, il 18 aprile 68.808 voti, il 7 giugno 62.099 voti. Fino a ieri, il nuovo Presidente della Repubblica abitava in un appartamento di via Carlo Fea, traversa di via Nomentana, nei pressi di Sant’Agnese. Dalla seconda moglie (la prima gli morì trent’anni fa) Gronchi ha avuto due figli: Mario, di dodici anni, che frequenta la terza media al «Nazareno» e Maria Cecilia, alunna del primo corso alla scuola delle Orsoline.